Febbraio 2019

LETTERA AL GENERALE  X

Saint-Exupéry era il discendente di una delle famiglie nobili più antiche di Francia, vantava il titolo di conte, ma non se ne avvalse mai. Fu pilota, prima dell’aviazione civile, poi dell’aviazione di guerra. La sua vita professionale fu molto avventurosa: aprì nuove rotte nel Sahara e transatlantiche. Compì il primo volo notturno sulla rotta Rio de Janeiro-Buenos Aires, quando, per individuare la direzione, ci si doveva ancora sporgere dal finestrino della cabina di pilotaggio e i calcoli si facevano con carta e matita. Fu costretto a più di un atterraggio di fortuna nel deserto (uno di questi è narrato nel Piccolo principe). Durante l’occupazione di Parigi da parte dell’esercito nazista, emigrò per un breve periodo a New York (scrisse: «Non c’è posto per me in un modo dominato da Hitler»), ma tornò subito dopo al suo stormo e intraprese azioni di guerra. Narra queste vicende nei suoi libri Volo di notteCorriere del SudPilota di guerra e Terra degli uomini, che è il suo capolavoro.

 

Lettera al Generale “X”

Sono di ritorno da alcuni voli sul “P-38”. È una bella macchina. A poterne disporre come regalo per i miei vent’anni sarei stato felice. Oggi constato con malinconia che, a quarantatré anni, dopo più o meno seimilacinquecento ore di volo sotto tutti i cieli del mondo, non riesco più a trovare un grande piacere a questo gioco. Oggi non è che uno strumento di spostamento – in questo momento, di guerra. Se io, a una età patriarcale per questo mestiere, mí sottopongo aí disagi della velocità e dell’altitudine, lo faccio più per non rifiutare nessuno dei fastidi chiesti alla nostra generazione che per ritrovare le soddisfazioni di un tempo. Questo è forse malinconico, ma forse anche non lo è. Indubbiamente è quando avevo trent’anni che mi sbagliavo.

 

La carretta e il cavallo

Nell’ottobre 1940, di ritorno dall’Africa del Nord, dove il gruppo 2-33 era emigrato, essendo la mia vettura parcheggiata, esangue, in qualche polverosa rimessa, ho scoperto la carretta e il cavallo. E, con essa, l’erba delle strade di campagna. Le pecore e gli ulivi. Ho scoperto che gli ulivi avevano altra funzione che di cadenzare il tempo dietro il vetro dei finestrini a centotrenta chilometri l’ora. Essi si mostravano nel loro vero ritmo, che è di fabbricare lentamente le olive. Le pecore non avevano più come fine esclusivo di fornire dati per le rilevazioni statistiche. Ridiventavano vive. Facevano del vero sterco e producevano della vera lana. E anche l’erba aveva un senso, perché la brucavano. E io mi sono sentito rivivere nel solo angolo del mondo in cui la polvere è profumata (sono ingiusto, essa lo è anche in Grecia e in Provenza). E m’è parso d’essere stato, in tutto il resto della mia vita, un imbecille. Tutto ciò per spiegarle che questa esistenza gregaria all’interno di una base americana, questi pasti consumati in piedi in dieci minuti, questo va e vieni tra le monoposto da 2600 CV in una specie di assurdo casamento in cui siamo ammassati a tre per tre in una stanza, in una parola, questo terribile deserto umano non ha nulla che accarezzi il cuore. Anche cose, come le missioni senza risultati o senza speranza di ritorno del 1940, sono una malattia da superare.

Il bar, la matematica e le Bugatti

Io sono “ammalato” per un tempo che non conosco. Ma non mi riconosco il diritto di non subire questa malattia. Ecco tutto. Oggi, sono profondamente triste – e in profondità. Sono triste per la mia generazione che è vuota di ogni sostanza umana. Che, non avendo conosciuto come forma di vita spirituale che il bar, la matematica e le Bugatti, oggi si trova a svolgere un’azione strettamente gregaria, priva d’ogni colore. Non lo notiamo neppure.

Prenda il fenomeno militare di cent’anni fa. Consideri quante energie esso integrava per riuscire a rispondere alla vita spirituale, poetica o anche semplicemente umana dell’uomo. Oggi, che siamo più aridi dei mattoni, sorridiamo di queste sciocchezze. Le divise, le bandiere, le canzoni, la musica, le vittorie (oggi non ci sono più vittorie, niente che abbia la densità poetica di una Austerlitz. Non ci sono che fenomeni di digestione lenta oppure rapida), ogni lirismo suona ridicolo e gli uomini si rifiutano di essere risvegliati a una qualsiasi vita spirituale.

Essi eseguono onestamente una specie di lavoro alla catena di montaggio.

Come dicono i giovani americani: «Accettiamo onestamente questo lavoro ingrato» e la propaganda, nel mondo intero, si batte con disperazione i fianchi. La sua malattia non deriva affatto dall’assenza di talenti particolari, ma dall’interdizione di appoggiarsi, senza apparire enfatica, sui grandi miti rigeneranti. Dalla tragedia greca, l’umanità, nella sua decadenza, è precipitata fino al teatro di Louis Verneuil [1] (è quasi impossibile andare oltre). Secolo della pubblicità, del sistema Bedeau[2], dei regimi totalitari e degli eserciti senza trombettiere e senza bandiere, né messa per i morti.

Odio la mia epoca con tutte le mie forze. 

L’uomo vi muore di sete. Ah! Generale, non c’è che un problema al mondo. Uno solo. Restituire agli uomini un significato spirituale, delle inquietudini spirituali. Far piovere su di essi qualcosa che assomigli a un canto gregoriano. Se avessi la fede, è assolutamente certo che, passata quest’epoca di “lavoro necessario e ingrato”, non farei altro che promuovere Solesmes[3].

Frigoriferi, politica, bilanci e parole incrociate

Non se ne può più di vivere di frigoriferi, di politica, di bilanci e di parole incrociate. Non se ne può più. Non si può vivere senza poesia, senza colore, senza amore. Solo a sentire un canto popolare del XV secolo, si può misurare la china che è stata discesa. Ci è rimasta soltanto la voce del robot della propaganda (mi perdoni). Due miliardi di uomini non sentono che il robot, non comprendono che il robot, si fanno essi stessi robot. Tutti i cedimenti degli ultimi trent’anni non hanno origine che da due fattori: le crisi dei sistemi economici del XIX secolo, la disperazione spirituale.

Perché Mermoz[4] ha seguito quel grande stupido del suo colonnello se non per sete?

Perché la Russia?

Perché la Spagna?

Gli uomini hanno fatto la prova dei valori cartesiani: all’infuori che per le scienze della natura, il loro tentativo non ha avuto successo. Non c’è che un problema, uno solo: riscoprire che c’è una vita dello spirito ancora più alta della vita dell’intelligenza, la sola che possa soddisfare l’uomo. Questo va ben oltre il problema della vita religiosa, che della vita spirituale costituisce una forma (anche se probabilmente la vita dello spirito conduce necessariamente all’altra). E la vita dello spirito comincia là dove un essere “uno” è concepito al di sopra dei materiali che lo compongono. L’amore per la casa – un amore sconosciuto negli Stati Uniti – fa già parte della vita dello spirito. E la festa campagnola e il culto dei morti (cito quest’ultimo perché dal mio arrivo qui si sono uccisi due o tre paracadutisti, ma li hanno fatti sparire: avevano finito di essere utili). Ciò è proprio della nostra epoca, non dell’America: l’uomo non ha più senso.

Il dopoguerra che verrà

Bisogna assolutamente parlare agli uomini. A che cosa servirà vincere la guerra, se ce ne verranno cent’anni di epilessia rivoluzionaria? Alla fine, quando sarà regolata la questione tedesca, allora cominceranno a porsi tutti i veri problemi. È poco probabile che, all’uscita da questa guerra, la speculazione sulle scorte americane sia sufficiente a distrarre l’umanità, come è avvenuto nel 1919, dalle sue reali preoccupazioni. In assenza di un forte movimento spirituale, spunteranno come funghi trentasei sette che si divideranno le une dalle altre. Lo stesso marxismo, già vecchiotto, si decomporrà in una moltitudine di contradditori neomarxismi. Lo si è ben visto in Spagna. A meno che un Cesare francese ci rinchiuda in un campo di concentramento neosocialista per l’eternità.

Ah! che strana sera questa sera, che strana atmosfera.

 

Dalla mia camera vedo illuminarsi le finestre di casamenti senza volto. Sento diversi apparecchi radio sciorinare la loro musica gracchiante alla folla sfaccendata venuta dall’aldilà dei mari e che non sa neppure che cosa sia la nostalgia. Si può confondere questa accettazione rassegnata con lo spirito di sacrificio e la elevazione morale. Ma sarebbe un grande errore. I vincoli d’amore che legano l’uomo d’oggi agli esseri e alle cose sono così poco stretti, così poco densi che l’uomo non ne avverte più l’assenza come in altri tempi.

È quello che racconta questo terribile dialogo ebraico: «Dunque, tu vai laggiù? Come sarai lontano! -Lontano da dove?». Il “dove” che hanno lasciato non era che un grosso fascio di abitudini.

In questa epoca di divorzi, si divorzia con la stessa facilità con cui ci si separa dalle cose. I frigoriferi sono intercambiabili. E anche la casa se è soltanto un assemblaggio. E la moglie. E la religione. E il partito. Non si può neppure essere infedeli: a che cosa lo si sarebbe? Lontano da dove e infedele a che cosa? Deserto dell’uomo. Al confronto, come sono sensati e gradevoli quegli uomini in gruppo.

Non servono le guardie, basta lo scopone o il bridge

Penso ai marinai bretoni di una volta, che sbarcavano a Magellano, alla Legione straniera, lasciati liberi in una città; penso a quei nodi complessi di appetiti violenti e di intollerabile nostalgia che hanno sempre rappresentato í maschi segregati troppo severamente. Per tenerli a freno occorrevano sempre dei gendarmi robusti o dei forti principi o delle forti fedi. Ma nessuno di loro avrebbe mai mancato di rispetto a una guardiana d’anatre. L’uomo di oggi, invece, lo sí tiene tranquillo, a seconda dell’ambiente, con lo scopone o con il bridge.

Sorprendentemente siamo dei castrati. E così ci sentiamo finalmente liberi. Ci hanno tagliato le braccia e le gambe e poi ci hanno lasciati liberi di camminare.

L’uomo animale docile

Odio quest’epoca in cui l’uomo, schiavo di un totalitarismo universale, diventa un animale docile, garbato e tranquillo. E ci hanno fatto prendere tutto ciò per progresso morale!

Ciò che odio nel marxismo è il totalitarismo al quale esso conduce. L’uomo vi è definito come produttore e consumatore, il problema essenziale è quello della distribuzione. È quanto avviene nelle aziende agricole modello.

Ciò che odio nel nazismo è il totalitarismo al quale esso aspira per sua stessa essenza. Se si fanno sfilare degli operai della Ruhr davanti a un Van Gogh, a un Cézanne e a una lucida foto a colori di cattivo gusto, essi sceglieranno sicuramente la foto a colori.

Ecco la verità del popolo! Si rinchiudono a forza in campo di concentramento i candidati Cézanne, i candidati Van Gogh, tutti i grandi non-conformisti, e si alimenta con foto a colori un bestiame succube. Ma dove vanno gli Stati Uniti e dove andiamo noi, anche noi, in quest’epoca di conformismo universale? L’uomo robot, l’uomo termite, l’uomo che oscilla dal lavoro organizzato con il sistema Bedeau allo scopone. L’uomo castrato di tutto il suo potere creatore e che non sa neanche più, dal fondo del suo villaggio, improvvisare una danza o una canzone. L’uomo che viene alimentato di cultura confezionata, di cultura standard come si nutrono i buoi con il fieno. Questo è l’uomo d’oggi.

 

E io, io penso che soltanto trecento anni fa si poteva scrivere La Princesse de Clèves [5] o rinchiudersi a vita in un convento a causa di un amore tradito, tanto era bruciante l’amore.

Oggi, certo, c’è chi si suicida. Ma la sofferenza di costoro è dell’ordine di un fortissimo mal di denti. Intollerabile. Che però non ha niente a che vedere con l’amore. Certo, c’è una prima tappa.

Io trovo insopportabile l’idea di dover versare intere generazioni di giovani francesi nel ventre del Moloch tedesco. A essere minacciata è la stessa sostanza. Ma dopo che essa sarà stata messa in salvo, allora si porrà il problema fondamentale, che è il problema del nostro tempo. Che è il problema del senso dell’uomo, al quale non vengono date risposte e ho anzi l’impressione che siamo incamminati verso i tempi più bui del mondo.

Di ciò che ho amato, che cosa resterà?

Per me fa lo stesso d’essere ucciso in guerra.

Di ciò che ho amato, che cosa resterà? Parlo degli esseri, ma ugualmente delle tradizioni, delle intonazioni insostituibili, di una certa luce spirituale. Del pranzo in una fattoria della Provenza, sotto gli ulivi, ma anche di Haendel.

Delle cose che sopravviveranno non mi importa nulla. Ciò che conta è una certa combinazione delle cose. La civiltà è un bene invisibile perché non riguarda le cose, ma gli invisibili legami che le annodano le une alle altre in quel modo piuttosto che in un altro. Avremo strumenti musicali perfetti prodotti e distribuiti in serie, ma dove sarà il musicista?

essere ucciso in guerra non mi importa.

 

Né a essere vittima dí una crisi di furore di questa specie di siluri volanti che non hanno più niente a che vedere con il volo e fanno del pilota in mezzo ai suoi bottoni e ai suoi quadranti una sorta di capo contabile (anche il volo è un certo ordine di legami). Ma se rientro alla base vivo da questo «lavoro necessario e ingrato», a me si porrà un solo problema: che cosa si può, che cosa si deve dire agli uomini?

Capisco sempre meno perché le racconto tutte queste cose. Senz’altro per dirle a qualcuno, perché sicuramente non sono tra quelle che ho il dovere di raccontare. Bisogna favorire la pace degli altri e non ingarbugliare i problemi. Per il momento, è bene che ci facciamo capo contabili a bordo dei nostri aerei da guerra. Dal momento in cui ho cominciato a scriverle, due colleghi si sono addormentati davanti a me nella mia camera. Devo mettermi a letto anch’io, perché suppongo che la mia luce accesa dia loro fastidio (mi manca molto un angolo tutto per me!).

Questi due compagni

Questi due compagni, nel loro genere, sono meravigliosi. È giusto, è nobile, è leale. E non so perché, guardandoli dormire, provo una specie di pietà impotente. Perché, anche se loro ignorano la loro stessa inquietudine, io la sento. Giusti, nobili, onesti, leali, sì, ma anche terribilmente poveri. Avrebbero tanto bisogno di un dio. Mi scusi se questa scadente lampada elettrica, che mi accingo a spegnere, le ha impedito di dormire e creda alla mia amicizia.

 

[1]          Louis Verneuil (1893 – 1952). Drammaturgo e commediografo, soprat-tutto per Sarah Bernhardt, della quale aveva sposato la nipote. È particolar-mente attivo negli anni in cui Sant-Exupéry scrive. Morirà suicida nel 1952.

[2]    Système Bedeau (o Bedeaux): organizzazione del lavoro operaio a cotti-mo, tenendo conto delle caratteristiche di ogni singolo lavoratore, che Saint-Exupéry giudica particolarmente penoso.

[3]          Solesmes. Maestosa abbazia benedettina, costruita sulle sponde del fiu-me Sarthe e famosa per la qualità del canto gregoriano che vi è eseguito dai monaci.

[4]          Jean Mermoz, aviatore postale francese, ricordato come eroe in Francia e in Argentina. Scomparve in mare il 7 dicembre 1936, dopo essere appena partito per una trasvolata atlantica.

[5]    La Princesse de Clèves è il romanzo più celebre di Madame de la Fayette, riconosciuto come il primo romanzo psicologico moderno, prototipo della set-tecentesca narrativa realistica borghese.